Basilicata, i luoghi della narrazione del futuro

“Il modo migliore per far crescere un’azienda, è sporcarsi le mani”

L’azienda Paterlegno nasce nel 1990 dall’idea di quattro soci, tre dei quali nulla avevano a che fare con il settore legno (un tecnico nel settore fotocopiatrici, un imbianchino e un elettricista).

Per ascoltare la storia di quest’azienda nata dalla passione e dai sacrifici dei suoi “padri” abbiamo incontrato Donato Russo, uno dei fondatori:

“L’idea nasce dallo spirito imprenditoriale del quarto socio, esperto del settore legno, che è stato con noi solo il primo anno.
Poiché dopo i primi 12 mesi i risultati attesi non sono arrivati, nel 1991 abbiamo dato un nuovo assetto all’azienda: abbiamo liquidato il quarto socio e gli abbiamo lasciato la vecchia azienda, scegliendo di trasferirci qui (Paterno, ndr), dove lavoriamo da 20 anni.
La scelta di questo territorio è stata dettata da motivi di opportunità, poiché questo terreno era di proprietà di due dei tre soci rimasti.”

Paterlegno nasce come segheria produttrice di imballaggi nuovi, con tre soci lavoratori e qualche dipendente.

“Da subito, però, iniziammo a prendere in considerazione la possibilità di recuperare il legno, anziché produrre imballaggi nuovi.” precisa Donato.

Dal 1991 al 1993 tutto il ricavato delle attività viene reinvestito nello sviluppo aziendale, così i capannoni di Paterlegno iniziano ad estendersi partendo dai 3 mila mq del ’91 per arrivare agli attuali 30 mila:

“Durante i primi anni di attività non era possibile versarci gli stipendi, non avevamo liquidità e siamo partiti già indebitati.”

Nel ’96 i soci decidono di dismettere l’impianto di segheria per concentrarsi sul recupero dei materiali.

“In quell’anno eravamo l’unica azienda specializzata nel recupero del legno e questo ci ha fatto capire che avremmo potuto creare una nuova fetta di mercato, rappresentavamo una novità e per questo motivo non avevamo concorrenza.”

La carta vincente dei fondatori è stata di reinvestire sempre gli utili nella crescita aziendale.

“Nel ’92 caricavamo a mano il materiale, non avevamo neanche un carrello elevatore, e inchiodavamo le pedane a mano, ma pochi anni dopo, nel ’97, avevamo quattro autotreni di proprietà”.

Nel ’99 partecipammo al bando promosso dal PO Val d’Agri per aggiungere cinque unità lavorative alla squadra, che nei primi anni del 2000 arriva a contare circa 35 dipendenti.

“In quel periodo abbiamo cominciato a guardarci intorno, la Basilicata non è una regione fortemente industrializzata e così abbiamo investito in Val di Sangro, vicino Chieti, e vicino Mantova: tutti i nostri stabilimenti sono autorizzati secondo la normativa del recupero rifiuti al trattamento del legno.
Ancor prima delle indicazioni del decreto Ronchi (Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e rifiuti di imballaggio, ndr), ci siamo impegnati a recuperare il legno nelle stesse quantità uscite dallo stabilimento, senza distruggerlo”.

Gli impianti Paterlegno hanno un canale d’immissione del legno che in parte viene riutilizzato, mentre la parte non riutilizzabile viene tritata e inviata ai pannellifici che recuperano il legno per la costruzione di mobili nuovi.

Da dove arriva un’intuizione così fortunata?

“È stata una mia idea appoggiata subito dai miei soci: la nostra è una società di persone e non di capitali, una società in cui le persone rispondono in solido con le proprietà di ciascuno.”

Paterlegno però è anche una società di servizi di logistica:

“Recuperiamo gli imballaggi conto terzi, li ripristiniamo nei nostri stabilimenti e infine li riportiamo all’azienda indicata dal committente.”

Nell’attività di Paterlegno confluiscono attività di trasporto e gestione dell’imballaggio:

“Nel 2001 abbiamo creato la società di trasporto conto terzi, Patertrans, che ci consente di ottimizzare gli spostamenti di Paterlegno con una flotta di 22 automezzi fornendo servizi anche conto terzi.”

Le due aziende – Paterlegno e Patertrans – impiegano circa 60 dipendenti, tra loro ci sono maestranze che collaborano da 20 anni con la proprietà:

“Le prime persone con cui ci confrontiamo sono le maestranze, ci sono dipendenti che lavorano con noi dall’inizio di quest’avventura, sono amici che sono cresciuti in azienda con noi, con un buon 50% dei collaboratori c’è un rapporto di dialogo e amicizia.
Nel 2008, allo scoppio della crisi, abbiamo riunito i nostri dipendenti e abbiamo chiesto loro la disponibilità a spostarsi sugli stabilimenti di Chieti e Mantova, così di comune accordo abbiamo deciso di spostare le competenze su tutta Italia a seconda delle esigenze.
In quel periodo vivevamo una situazione per cui qui avevamo un esubero di quattro persone e a Chieti la necessità di tre: invece di assumere a tempo determinato risorse a Chieti e di mettere in mobilità unità lucane, abbiamo proposto uno spostamento ad hoc a rotazione, riuscendo a garantire un salario costante.
Questa scelta si è rivelata vincente visto che nel pieno della crisi – nel 2010 e 2011 – abbiamo lavorato normalmente. Idem nel 2012, quando c’è stato bisogno di aggiustare il tiro, ci siamo seduti intorno ad un tavolo e abbiamo discusso con i collaboratori della necessità di supplire all’impossibilità di aumentare il capitale umano aumentando gli straordinari.
Purtroppo non riusciamo ad avere una programmazione lineare, può capitare che non si lavori il lunedì ma sia necessario essere in stabilimento il sabato, a seconda delle richieste di mercato.”

E il cambio generazionale come pensa influirà sull’andamento dell’azienda?

“Da 20 anni tra noi soci c’è una comune identità di vedute e un comune accordo che non è stato difficile mantenere, ma che può essere messo a rischio dall’entrata in azienda di nuovi soggetti che vedono le cose in modo diverso. Mio figlio non ha fame, è nato e ha vissuto in un contesto diverso da quello di suo padre e dei suoi soci e forse non ha l’aggressività, la spinta e la forza che avevamo noi.
Da quando ha deciso di non iscriversi all’università e di entrare in azienda, ho cercato di trasmettergli l’importanza di lavorare, fargli capire che solo creando plusvalenza gli sarà riconosciuto un ruolo all’interno dell’azienda, un ruolo diverso da quello di figlio del socio.
Gli ho spiegato le sue mansioni e gli obiettivi da raggiungere, avrà il compenso in base ai risultati ottenuti e se non dovesse farcela non avrebbe senso tenerlo come dipendente.”

Qual è il rapporto con le aziende e il comparto industriale della Val d’Agri?

“In realtà non abbiamo molti rapporti perché diamo il nostro servizio a pochissime aziende di questo distretto, non produciamo l’imballaggio nuovo e lo deleghiamo ad aziende terze, che magari hanno sede produttiva in Val d’Agri, ma siamo più visti come collaboratori che come competitor.”

Le prospettive per questa parte della Basilicata si concentrano soprattutto sulla green economy: in questa ottica, Paterlegno come si pone all’interno di un eventuale distretto più vicino alla sua vocazione?

“Rispetto alla green economy, la Val d’Agri ha un’enorme potenzialità, è una valle con un microclima molto particolare che consentirebbe uno sviluppo importante nella filiera agroalimentare, ma l’agricoltura non è il forte dei valligiani, che cercano ancora il posto fisso.”

Qual è il rapporto di Paterlegno con le opportunità promosse dai bandi pubblici?

“Non siamo molto interessati ai contributi pubblici, preferiamo fare investimenti adeguati alle nostre esigenze che spesso non rientrano nei parametri richiesti nei bandi.
Ad esempio abbiamo realizzato uno stabilimento partecipando ad un bando in cui siamo arrivati 37esimi in prima battuta, proprio perché non abbiamo adeguato le nostre esigenze al procedimento: poi è scalata la graduatoria e siamo rientrati nelle aziende beneficiarie e la prossima sfida è far partire questa struttura. Più in generale, non siamo mai stati subordinati a logiche politiche, qui non è mai entrato un dipendente raccomandato. Presentati, sì, da amici che ci segnalavano persone ritenute adatte alla nostra azienda, ma ci siamo sempre ritenuti liberi di acquisire e licenziare personale a seconda delle capacità dimostrate sul campo. Questo viene percepito dai dipendenti, che si sentono davvero parte di Paterlegno, sanno che loro hanno bisogno dell’azienda tanto quanto noi abbiamo bisogno di loro.”

Quale potrebbe essere lo step tecnologico successivo di Paterlegno dopo la trasformazione da produttrice di pedane ad azienda di recupero e riutilizzo
a società di servizi di logistica?

“Dipenderà tutto da chi verrà dopo di noi, dalla voglia che avranno i più giovani di innovarsi e dalla consapevolezza che il punto di arrivo è sempre un punto di partenza: i mercati si evolvono in fretta e quello che oggi può essere un prodotto o un servizio di punta, domani sarà già sorpassato.”

E se oggi Donato Russo avesse vent’anni, rifarebbe le stesse scelte di quando ha cominciato?

“Rifarei esattamente tutto quello che ho fatto, non rimpiango nulla, anche perché non si possono giudicare giuste o sbagliate delle scelte a distanza di tempo, le scelte sono il frutto di particolari e contingenti situazioni, sono giuste o sbagliate nel momento in cui vengono fatte.
A un ragazzo che oggi si affaccia sul mondo del lavoro consiglierei di provare a fare quello per cui si sente davvero portato, non rischia niente e ha ancora tutto il tempo per sbagliare e rifarsi: i ragazzi, oggi più di vent’anni fa, hanno un bagaglio culturale più ricco. Il problema serio, al di là delle fatiche dei mercati, è la poca propensione a sporcarsi le mani, a fare lavori manuali.
Ho inchiodato bancali quando siamo nati, oggi se è necessario fare una consegna fuoriporta guido il camion anche se abbiamo 18 autisti; se sono in azienda durante lo scarico merci e posso, do’ una mano e so che non c’è niente di eccezionale in questo, è semplicemente il modo migliore di far crescere un’azienda.”